“In medicina le parole hanno sovente un ruolo e un peso non minore del farmaco e del bisturi, tale è la forza che possono convogliare nel complesso “rapporto di cura” che lega il medico al malato”, afferma Vittorio A. Sironi, docente di Storia della medicina e della sanità e direttore del Centro studi sulla storia del pensiero biomedico dell’università di Milano Bicocca nel presentare la giornata di studi del 19 novembre 2011, organizzata in collaborazione con l’Azienda ospedaliera San Gerardo e l’Assessorato all’Edicazione, alla Famiglia e alle Politiche Sociali di Monza, sui rapporti tra medicina e poesia in occasione la ricorrenza della scomparsa, centocinquant’anni fa, del medico-poeta (com’egli stesso si definiva) Giovanni Rajberti.
Nato a Milano il 18 aprile 1805, laureatosi a Pavia in Medicina nel 1830, egli esercitò la professione di chirurgo presso l’Ospedale Maggiore della sua città natale sino al 1842, anno in cui si trasferì come primario chirurgo presso l’ospedale di Monza, città nella quale morì l’11 dicembre 1861.
Spirito vivace e animo rivoluzionario, Rajberti non era tenero con i governatori di allora (le sue idee risorgimentali furono una delle ragioni per le quali fu costretto a lasciare Milano), né lesinò critiche ai colleghi e alla medicina del tempo, denunciando “certi pregiudizi del popolo, rivelatori – come scrisse – di deplorevoli condizioni sanitarie imputabili, per sottintesi, alle autorità governative”.
Nemico dichiarato dell’omeopatia e delle altre “mode” sanitarie allora in voga (l’idroterapia e il magnetismo) nonché dei rimedi che non giovavano al paziente bensì solo a chi li produceva, la sua opera letteraria in versi meneghini si colloca nell’alveo della migliore poesia dialettale milanese, che da Carlo Maria Maggi (1630-1699) attraverso Carlo Porta (1775-1821), Giuseppe Bossi (1777-1815) e Tommaso Grossi (1790-1853), sarebbe giunta, attraverso la stessa opera di Giovanni Rajberti, alla poesia novecentesca di Giovanni Barella (1884-1967), Delio Tessa (1886-1939) e Franco Loi (1930-vivente).
Il ruolo critico e terapeutico del verso, nell’ambito di una pratica – quella medica – in cui la parola (ancora più se in rima) può assumere una valenza non solo esplicativa, ma anche consolatrice e curativa, è il filo conduttore della riflessione che, partendo dalle vicende biografiche e bibliografiche di un personaggio che tanta parte ha avuto nella storia di Milano e di Monza, porta a cogliere l’importanza della componente “artistica” di una disciplina – la chirurgia – dove il bisturi e la penna possono non solo coesistere, ma anche reciprocamente integrarsi.
Il programma prende avvio da una riflessione, in parte autobiografica, della poetessa Stefania Crema (Medicina e poesia: il verso come terapia) a cui seguono interventi dello storico della medicina Vittorio A. Sironi (La vita avventurosa di un medico poeta tra Milano e Monza), dello storico della salute Giorgio Cosmacini (Rajberti e la medicina del suo tempo), del ricercatore Michele A. Riva (Le opere del periodo monzese), del direttore della Biblioteca Civica di Monza Giustino Pasciuti (Le carte su e di Rajberti presso la Biblioteca di Monza) e si chiude con una relazione dell’ex-direttore della Biblioteca Civica di Monza Giuseppe Colombo (Rajberti e la poesia dialettale milanese).